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Ad occhi chiusi

Alla domanda su quando e come si è formato e sedimentato o impressionato, il suo mondo immaginale, Paolo mi risponde con la storia del suo apprendistato tecnico. Gli ripeto la domanda, chiarendola, perché so che ognuno vive psicologicamente una maturità emotiva che può accrescersi e declinarsi creativamente in un istante, come un’intuizione inconsapevole ma assoluta e visionaria di equilibri etici, materici e di forma, che ci accom- pagneranno per sempre. Paolo d’istinto mi guarda, ma vede un ricordo, figure esili e potenti di corpi di bambini e bambine a petto nudo, mentre giocano al pallone tra gli intonaci e le case del paese dell’infanzia, Girifalco. Grida e corse a perdifiato, equilibri di forma, la bellezza nella semplicità assoluta, ma anche il male e il bene, durante quest’apprendistato della vita, quando il bambino Migliazza si accorge del funzionamento del mondo, e di come vanno le cose tra gli esseri umani. E’ davanti a noi in forma di scultura, quella connessione di esistenze emotivamente prorompenti senza filtri né codici, quel presente rigonfio di aspettative vaghe, fatte di gioco e istinto, di corpi come cascate e correnti, di lava psichica, di lava bruciante. Forse la stessa che Paolo ha impastato alla terra per dare corpo a questi volti ciechi, che non hanno perciò vero contatto con l’osservatore, e che non sono “su- pereroi”. Un drappello di giovane umanità anonima e sottoposta, priva di occhi anche perché aedo di una poetica e di una visione conosciuta solo dal corpo, che sa in sè stesso come crescere e come svilupparsi, in som- movimenti segreti e invisibili. Ma non è tanto il corpo, il giacimento del cor- po, a parlare, qui, piuttosto il coordinamento busto-arti, i gesti, le divaricazi- oni, i raccordi, le convergenze, le aperture, gli incavi e le sporgenze di una superficie dermica scandita da magrezze e gonfiori, asprezze, aggressioni e scarnificazioni, incavi e improvvise carezzevoli dolcezze. Pelle pervasa da fiori di fango di una solfatara in ebollizione, che seriamente stabiliscono un significato prossemico nella distanza e nello spazio tra sé e gli altri, ma an- che una prossemica del tempo, nel segno di un’acerbità infantile, rispetto all’esperienza e alle capacità degli osservatori adulti. La disposizione nello spazio dei corpi umani e animali, delle ramificazioni dell’universo vegetale e delle dimensioni e degli orientamenti delle forme inanimate delle cose ha un senso profondo centrato in noi, e dilatato all’intorno di noi, veicolabile, ma non traducibile in parole. Un senso che è come una corrente inversa rispetto a quella interpretativa del nostro stesso sguardo verso l’esterno del mondo, incapsulato in parole e concetti, la cui stesura definitoria consiste non nell’emanazione e nella proiezione delle sfumature materiche e fenom- enologiche della realtà, ma nei limiti e nelle cesure con cui costruiamo gli assiomi della conoscenza e del linguaggio scritto e parlato. Le forme degli idoli infantili e quotidiani di Paolo Migliazza si sono nutrite di materia corpo- rea e di plastica scultorea per dare senso all’indicibile dell’abbandono di un braccio, all’arcuarsi della linea di un collo, al volgersi di una testa, alle dita di una mano raggrumate in un pugno, alla diffidenza ombrosa di una schiena che si ritrae, alla fissità annichilita di una mascella immobile. Per questo, le sue fatiche materiali, più necessarie allo spirito che al corpo. Lo studio a Bologna, uno spazio grande e terroso, con le polveri di carbone e i sacchi di argilla e gli stampi e i materiali per le patine. I disegni preparatori appuntati sbilenchi sull’intonaco, e i disegni autonomi e compiuti, orientamenti verso la libertà del tratto e del colore. L’essenziale è di potere ritrovare dentro l’argilla, il cemento, il pigmento, le pennellate sulla pelle delle superfici, le giovani creature di quell’età ostica e dura, distante e assai prossima. Cose da scultore, si dirà. Vero, cose della materia e della tecnica, che solo nel ter- ritorio dell’arte ancora sopravvivono, facendone l’ultimo scenario del mag- nifico raccordo tra mano, mente, invisibile. E così, lentamente, Migliazza si distanzia dal lievito usato per la primissima stagione del proprio lavoro, da lontananze maggiori ama Degas e Medardo Rosso, Vincenzo Gemito, Al- berto Giacometti e Arturo Martini, Gehard e Aron Demetz, Bruno Walpoth e Isabelle Cornière. I suoi bambini e adolescenti sono schierati su queste colonne bianche come fossero stele, come spiriti in marcia, come l’enigma infantile narrato da Henry James, o dai manga dallo sguardo triste.